La prova del licenziamento per giusta causa spetta al datore di lavoro e deve riguardare la sussistenza di una grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro, in particolare di quello fiduciario.
Lo ha ribadito la Corte di Cassazione pronunciandosi licenziato per aver presentato più volte al datore di lavoro rimborsi spese di ristorazione, contrastanti con contestuali domande di rimborso presentate da altri dipendenti che il ricorrente aveva indicato come partecipanti ai pranzi ai quali si riferivano le istanze di pagamento.
Sul caso, la Corte d’appello ha valutato l’attività istruttoria svolta dal giudice di primo grado, rimarcando la carenza di prova della falsità della partecipazione di terzi al pranzo rimborsato al ricorrente, e, di conseguenza, è stata confermata la declaratoria di illegittimità del licenziamento per mancanza di prova degli addebiti formulati, coerentemente con i principi affermati in tema dalla Corte di Cassazione, secondo i quali l’onere della prova della giusta causa del licenziamento spetta inderogabilmente al datore di lavoro e deve riguardare la sussistenza di una grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro, in particolare di quello fiduciario, con riferimento agli aspetti concreti di esso, afferenti alla natura ed alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente nella organizzazione dell’impresa, nonché alla portata soggettiva del fatto stesso, ossia alle circostanze del suo verificarsi, ai motivi e all’intensità del fatto volitivo.
In Cassazione, invece, la società datrice di lavoro ha affermato che i dati acquisiti in giudizio consentivano di ritenere dimostrato che gli altri dipendenti avevano negato di avere consumato con il ricorrente i pranzi e le cene aziendali, presentando a propria volta analoghe richieste di rimborso. La gravità del comportamento – sempre secondo la medesima società – doveva ritenersi idonea a ledere il vincolo fiduciario sotteso al rapporto di lavoro, in tal senso palesandosi l’erroneità della decisione della Corte laddove aveva accertato la violazione del criterio di proporzionalità fra sanzione espulsiva e mancanze ascritte.
Link all’articolo originale