In tema d’IRAP, il contribuente può contestare la debenza del tributo, frutto di errore nella dichiarazione dei redditi presentata, anche in sede d’impugnazione della cartella di pagamento (Corte di Cassazione – Sentenza 31 maggio 2017, n. 13730).
La Suprema Corte accoglie il ricorso della contribuente/avvocato avverso la decisione della CTR che, accogliendo l’appello dell’Agenzia delle entrate, ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso introduttivo avverso la cartella di pagamento emessa all’esito della liquidazione in base alla dichiarazione dell’IRAP, e ciò in quanto si trattava di mancato pagamento dell’imposta regolarmente dichiarata. Secondo il giudice d’appello, infatti, in tali casi il contribuente doveva ottemperare al suo pagamento, e successivamente chiederne il rimborso.
La Corte di Cassazione ha precisato che “in tema d’IRAP, il contribuente può contestare la debenza del tributo, frutto di errore nella dichiarazione presentata, anche in sede d’impugnazione della cartella di pagamento, nonostante la scadenza del termine di cui all’art. 2, comma 8 bis, del d.P.R. 22 luglio 1998, n. 322, atteso che le dichiarazioni dei redditi sono, in linea di principio, sempre emendabili, sin in sede processuale, ove per effetto dell’errore commesso derivi, in contrasto con l’art. 53 Cost., l’assoggettamento del dichiarante ad un tributo più gravoso di quello previsto dalla legge”.
La ratio decidendi della sentenza impugnata – secondo cui il contribuente è assoggettato all’imposta in quanto “dall’esame degli atti l’aumentare del reddito dichiarato dalla contribuente non esclude il pagamento dell’imposta, avvalendosi di un minimo di organizzazione con apporti di lavoro altrui” – non è conforme al principio secondo cui, a norma del combinato disposto degli artt. 2, comma 1, primo periodo, e 3, comma 1, lettera c), del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, l’esercizio delle attività di lavoro autonomo di cui all’art. 49, comma primo, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, è escluso dall’applicazione dell’imposta soltanto qualora sì tratti di attività non autonomamente organizzata: il requisito della “autonoma organizzazione”, il cui accertamento spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, ricorre quando il contribuente: a) sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell’organizzazione, e non sia quindi inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse; b) impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l’id quod plerumque accidit, il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività in assenza di organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui; al riguardo, si è più recentemente chiarito come il detto requisito dell’autonoma organizzazione non ricorre quando il contribuente responsabile dell’organizzazione si avvalga di lavoro altrui non eccedente l’impiego di un dipendente con mansioni esecutive; costituisce poi onere del contribuente che richieda il rimborso fornire la prova dell’assenza delle condizioni anzidette.
La sentenza si rivela non adeguatamente motivata; sembra essere incorsa nell’errore di diritto ad essa addebitato nell’assegnare rilevanza centrale all’entità del reddito della contribuente, che ai fini dell’imposta in esame costituisce un dato “neutro”.
Link all’articolo originale