Nel procedimento disciplinare a carico del lavoratore, l’elemento di garanzia in suo favore è dato dalla contestazione dell’addebito, mentre la successiva comunicazione del recesso può limitarsi a far riferimento sintetico a quanto già contestato, non essendo tenuto il datore, ad una motivazione analoga a quella dei provvedimenti giurisdizionali, né è tenuto a menzionare nel provvedimento disciplinare le giustificazioni fornite dal lavoratore dopo la contestazione della mancanza e le ragioni che lo hanno indotto a disattenderle.
Nel caso di specie, la Corte d’appello aveva dichiarato illegittimo il licenziamento intimato a un lavoratore in seguito a una lettera di contestazione disciplinare, con la quale si addebitava al dipendente lo svolgimento di attività lavorativa continuativa durante la fruizione di congedo per malattia, permessi sindacali e legge n. 104, riscontrata da indagini effettuate da agenzia investigativa.
Secondo la Corte, l’indagine doveva essere circoscritta ai soli fatti indicati nella lettera di recesso preceduti da formale contestazione e che, pertanto, non poteva rilevare la circostanza, riportata solo nella lettera di contestazione dell’addebito, che il dipendente fosse stato visto “deambulare regolarmente e condurre senza alcuna difficoltà il motociclo e l’auto in suo uso, senza palesare alcun segno di sofferenza o limitazione dei movimenti”, che non era stata ripresa della raccomandata di licenziamento; riteneva, quindi, che la condotta del dipendente non avesse interferito con il recupero della sua integrità fisica, né avesse recato grave pregiudizio alla società, avendo il dipendente ripreso regolarmente servizio al termine dei congedi. La stessa Corte, pur dando atto che nella lettera di contestazione era descritta la regolare deambulazione e l’uso dei mezzi senza difficoltà quale elemento fattuale qualificante la condotta di abusiva fruizione dei permessi, non l’ha poi sottoposta a riscontro fattuale e non l’ha considerata al fine della valutazione complessiva. Tale valutazione sarebbe stata rilevante, considerato che per giurisprudenza costante, lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente durante lo stato di malattia configura la violazione degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede, sia nell’ipotesi in cui tale attività esterna sia, di per sé, sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, sia nel caso in cui la medesima attività possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio, valutata con giudizio ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte.
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