Nel caso in cui gli organi ispettivi abbiano accertato l’impiego di lavoratori “in nero” e riscontrato altresì che la remunerazione dei medesimi lavoratori sia avvenuta in contanti e non mediante gli strumenti di pagamento prescritti, non può di per sé escludersi l’applicazione della sanzione prevista dal citato comma, che in ogni caso discende del comportamento antigiuridico adottato ed è posta a tutela di interessi non esattamente coincidenti con quelli presidiati dalla c.d. maxisanzione per lavoro “nero”.
Come noto, in forza dell’art. 1, comma 913, L. n. 205/2017, a partire dal 1° luglio u.s. trova applicazione la sanzione amministrativa pecuniaria consistente nel pagamento di una somma da 1.000 a 5.000 euro nei confronti dei datori di lavoro o dei committenti che corrispondono ai lavoratori la retribuzione, ovvero ogni anticipo di essa, senza avvalersi degli strumenti di pagamento espressamente indicati dal comma 910 (bonifico sul conto identificato dal codice IBAN indicato dal lavoratore; strumenti di pagamento elettronico; pagamento in contanti presso lo sportello bancario o postale dove il datore di lavoro abbia aperto un conto corrente di tesoreria con mandato di pagamento; emissione di un assegno consegnato direttamente al lavoratore o, in caso di suo comprovato impedimento, a un suo delegato).
Secondo il comma 912, il campo di applicazione della suddetta disposizione può essere individuato in ogni rapporto di lavoro subordinato, indipendentemente dalle modalità di svolgimento della prestazione e dalla durata del rapporto, nonché in ogni rapporto di lavoro originato da contratti di collaborazione coordinata e continuativa e dai contratti di lavoro instaurati in qualsiasi forma dalle cooperative con i propri soci.
Con nota n. 5828/2018, l’Ispettorato ha precisato che l’illecito si configura ogniqualvolta venga corrisposta la retribuzione in violazione del comma 910 dell’art. 1 L. n. 205/2017, secondo la periodicità di erogazione che, di norma, avviene mensilmente.
Ciò premesso, la fattispecie oggetto del quesito riguarda l’ipotesi in cui gli organi ispettivi abbiano accertato l’impiego di lavoratori “in nero” e riscontrato altresì che la remunerazione dei medesimi lavoratori sia avvenuta in contanti e non mediante gli strumenti di pagamento prescritti. In tali casi, benché debba ritenersi piuttosto remota la possibilità che il lavoratore “in nero” venga remunerato utilizzando strumenti “tracciabili”, non può di per sé escludersi l’applicazione della sanzione prevista dal comma 913, che in ogni caso discende del comportamento antigiuridico adottato ed è posta a tutela di interessi non esattamente coincidenti con quelli presidiati dalla c.d. maxisanzione per lavoro “nero”.
Del resto, laddove il Legislatore ha voluto escludere l’applicazione di ulteriori sanzioni in caso di contestazione della maxisanzione lo ha fatto espressamente.
Va tuttavia evidenziato che, l’illecito si configura solo laddove sia accertata l’effettiva erogazione della retribuzione in contanti; peraltro, atteso che nelle ipotesi di lavoro “nero” la periodicità della erogazione della retribuzione può non seguire l’ordinaria corresponsione mensile, in ipotesi di accertata corresponsione giornaliera della retribuzione si potrebbero configurare tanti illeciti per quante giornate di lavoro in “nero” sono state effettuate.
Resta ferma, infine, l’adozione della diffida accertativa per il caso in cui, accertata la corresponsione della retribuzione, quantunque in contanti, la stessa risulti inferiore all’importo dovuto in ragione del CCNL applicato dal datore di lavoro.
(Cfr. Nota Inl n. 9294/2018).